di Pietro Greco
Direttore Master Comunicazione Scientifica della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste
Quella che volge ormai al termine è stata, forse, la peggiore estate del dopoguerra per le «perle del Golfo», Capri e Ischia. E non solo per questioni di immagini.
A Ischia la presunzione (fondata o no che sia) del mare sporco ha tenuto lontane molte persone dalle spiagge e ridotto l’affluenza turistica. A Capri è stata chiusa addirittura la Grotta Azzurra per inquinamento (vero o solo presunto).
In ambedue le isole noti imprenditori sono stati colti sul fatto mentre usavano quel mare da cui le loro floride aziende ricevono appeal come discarica per rifiuti, solidi e liquidi.
Entrambe, Ischia e Capri, sono state a ripetizione oscurate da una serie di black out. E tuttora a Ischia sono in funzione alcune decine di rumorosi generatori mobili per far fronte a un’emergenza che, per vastità e durata, è del tutto inedita.
Infine, ciliegina sulla torta, docenti e studenti del liceo classico di Ischia non sanno ancora dove e non sanno neppure quando inizieranno l’anno scolastico, a causa dell’inagibilità niente affatto improvvisa dell’edificio che li ospita.
Tutti questi sembrano fatti minori. Sono indipendenti l’uno dall’altro. E hanno cause prossime del tutto diverse tra di loro. Tuttavia le cause remote che hanno reso pessima l’estate dell’«isola verde» e dell’«isola azzurra» hanno un interesse generale. Perché la realtà economica di Ischia e Capri è molto importante: sulle due isole insiste all’incirca la metà della capacità ricettiva dell’intera Campania. Perché Capri e Ischia sono conosciute in tutto il mondo e la loro immagine deturpata si rivela un danno per l’intera regione e, persino, per l’intero paese. Perché l’intensità di ricchezza delle due isole – o, se si vuole, il reddito medio pro-capite a Capri e Ischia – è tra i più alti d’Europa. E poiché, dicono gli economisti, la qualità ambientale è correlata al reddito, la vicenda espone – ed impone – una facile analisi comparativa: nulla di quanto è successo a Ischia e Capri potrebbe succedere – che so – a Bath (Gran Bretagna) o a Saint-Moritz (Svizzera), a Bergen (Norvegia) o a Deauville (Francia).
Perché, dunque, in Campania – persino in condizioni ideali, in aree ricche e senza problemi evidenti né di macro né di microcriminalità – le forme e l’intensità del degrado raggiungono dimensioni altrove semplicemente inimmaginabili?
Non è affatto semplice rispondere a questa domanda. Le implicazioni storiche, sociali, culturali sono tante e tali che nessuno è mai davvero riuscito a dipanare la matassa e a spiegare perché, come rilevava Benedetto Croce riprendendo un detto vecchio almeno di un millennio, spesso Napoli e dintorni appaiono come un paradiso abitato da diavoli. Non proponiamo, dunque, una lettura definitiva.
Tuttavia alcune indicazioni dalle vicende estive delle «perle del Golfo» sembrano emergere. Prendiamo la vicenda sulle voci del mare inquinato (anche a causa dei problemi accusati dal depuratore di Cuma). Prescindiamo dal merito: ovvero non diciamo se siano fondate, parzialmente fondate o del tutto infondate. Sta di fatto che sono state credute. Che molte persone hanno prestato loro fede. E non solo persone ingenue e credulone. Chi scrive conosce un medico oncologo di un grande ospedale napoletano – una persona esperta e smaliziata, dunque – che, dopo molti anni, ha disertato l’agosto ischitano a causa di quelle voci. Cosa significa tutto ciò? Significa che le istituzioni – sia quelle politiche sia quelle tecniche – hanno perduto credibilità. Non vengono credute dai cittadini. E questa mancanza di fiducia produce effetti, anche economici. Ma soprattutto lacera il tessuto del vivere civile.
Come avrebbero reagito le istituzioni a Bath o a Bergen o a Deauville in un caso simile? Avrebbero intrapreso una formidabile campagna di trasparenza: offrendo ai cittadini in tutta umiltà quantità straordinarie di dati certi e tempestivi. E se ancora non fossero stati creduti, avrebbero chiesto ad agenzie tecniche indipendenti e affidabili di fare altrettanto. Trasparenza e disponibilità assoluta al confronto, innanzitutto. È l’unico modo per riacquistare la credibilità (a torto o a ragione) perduta.
Trasparenza e umile disponibilità a qualsiasi costo. Perché anche ritrovarsi nello scenario “reale” peggiore (che in questo caso sarebbe potuto essere registrare l’effettivo inquinamento del mare) è una condizione migliore che ritrovarsi nello scenario “virtuale” peggiore: quello delle dicerie incontrollate.
Il tema non riguarda solo Ischia e Capri e il mare che le bagna. Riguarda tutta la Campania e tutti i temi “ecologicamente sensibili”: dall’abusivismo edilizio ai rifiuti (urbani e speciali). Non si illuda chi crede nelle scorciatoie elitarie o addirittura autoritarie: solo la trasparenza e il faticoso dialogo, solo il recupero di credibilità delle istituzioni e la partecipazione dei cittadini, possono risolvere i problemi del governo della società nell’era dell’informazione e della conoscenza. Proprio come avviene a Bath o a Saint-Moritz, a Bergen o a Deauville e in tutti i paesi e le città d’Inghilterra e della Norvegia, della Francia e della Svizzera. Insomma, come avviene in Europa.
Si tratta, a ben vedere, di (ri)costruire una cultura del bene comune che da noi si è fortemente eroso. Fino a spingere imprenditori di successo a distruggere – come è avvenuto a Ischia e a Capri – la risorsa ambientale (bene comune) da cui traggono direttamente profitto. La repressione dei reati ambientali è certo necessaria. Ma fino a quando la qualità dell’ambiente non diventerà un bisogno diffuso – fino a quando non costruiremo una cultura dell’ambiente come bene comune – non riusciremo a impedire neppure che si ripetano episodi stupidamente tafazziani come quelli avvenuti quest’estate a Ischia e a Capri.
Non sarà facile. Per due motivi. Il primo è che nel nostro paese l’idea e la prassi neoliberiste dell’approccio privatistico allo sfruttamento delle risorse ha assunto forme e intensità sconosciute nel resto d’Europa. I black out a Ischia e Capri di quest’estate – del tutto inimmaginabili per frequenza e intensità a Bath o a Saint-Moritz, a Bergen o a Deauville (Francia) – sono avvenuti anche perché l’erogazione dell’energia elettrica ha cessato da tempo di essere un servizio sociale ed è diventato un affare privato come un altro. Ciò che conta è l’interesse immediato dell’azienda che lo gestisce, non il bene della collettività. Neppure quando su quel bene si regge metà dell’economia turistica di un’intera regione. Non è così nel resto d’Europa. O, almeno, l’approccio privatistico non assume forme così prevaricatrici e irresponsabili.
Il secondo motivo ci rimanda alla vicenda, in apparenza minore, del liceo classico di Ischia. Gli studenti e i docenti di quella scuola in un’isola che vanta una ricchezza media tra le più alte d’Europa non sanno ancora dove e quando inizieranno le lezioni perché il problema in questa parte d’Europa non è considerato prioritario. Non solo dalle istituzioni politiche. Ma dall’intera società. Non c’è una sufficiente domanda sociale di qualità dell’educazione.
Non si tratta solo di Ischia e Capri, naturalmente. La mancanza di un’elevata domanda sociale di educazione di qualità si sono potute diffondere e radicare nel nostro paese e nella nostra regione – persino in realtà ricche come Ischia e Capri – più che altrove in Europa anche perché in Italia e nel Mezzogiorno d’Italia crediamo meno che altrove al valore strategico dell’educazione e della conoscenza.
Una riprova? Il nostro paese investe nella scuola meno degli altri paesi dell’area OCSE. E nei prossimi anni, per uscire dalla crisi, ha deciso di tagliare ben 8 miliardi alla scuola. Negli Stati Uniti, per uscire dalla crisi, il nuovo presidente Obama ha deciso di investire alcune decine di miliardi in più nella scuola. E in Giappone, anche per uscire da un lungo periodo di stagnazione, il partito democratico di centrosinistra che ha vinto le elezioni scalzando dopo mezzo secolo il partito Liberaldemocratico di centrodestra ha annunciato di voler puntare ancora di pi sull’educazione dei propri ragazzi: conferendo alle loro famiglie 3.300 dollari l’anno per l’intero arco degli studi, fino alle medie superiori incluse.
Direttore Master Comunicazione Scientifica della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste
Quella che volge ormai al termine è stata, forse, la peggiore estate del dopoguerra per le «perle del Golfo», Capri e Ischia. E non solo per questioni di immagini.
A Ischia la presunzione (fondata o no che sia) del mare sporco ha tenuto lontane molte persone dalle spiagge e ridotto l’affluenza turistica. A Capri è stata chiusa addirittura la Grotta Azzurra per inquinamento (vero o solo presunto).
In ambedue le isole noti imprenditori sono stati colti sul fatto mentre usavano quel mare da cui le loro floride aziende ricevono appeal come discarica per rifiuti, solidi e liquidi.
Entrambe, Ischia e Capri, sono state a ripetizione oscurate da una serie di black out. E tuttora a Ischia sono in funzione alcune decine di rumorosi generatori mobili per far fronte a un’emergenza che, per vastità e durata, è del tutto inedita.
Infine, ciliegina sulla torta, docenti e studenti del liceo classico di Ischia non sanno ancora dove e non sanno neppure quando inizieranno l’anno scolastico, a causa dell’inagibilità niente affatto improvvisa dell’edificio che li ospita.
Tutti questi sembrano fatti minori. Sono indipendenti l’uno dall’altro. E hanno cause prossime del tutto diverse tra di loro. Tuttavia le cause remote che hanno reso pessima l’estate dell’«isola verde» e dell’«isola azzurra» hanno un interesse generale. Perché la realtà economica di Ischia e Capri è molto importante: sulle due isole insiste all’incirca la metà della capacità ricettiva dell’intera Campania. Perché Capri e Ischia sono conosciute in tutto il mondo e la loro immagine deturpata si rivela un danno per l’intera regione e, persino, per l’intero paese. Perché l’intensità di ricchezza delle due isole – o, se si vuole, il reddito medio pro-capite a Capri e Ischia – è tra i più alti d’Europa. E poiché, dicono gli economisti, la qualità ambientale è correlata al reddito, la vicenda espone – ed impone – una facile analisi comparativa: nulla di quanto è successo a Ischia e Capri potrebbe succedere – che so – a Bath (Gran Bretagna) o a Saint-Moritz (Svizzera), a Bergen (Norvegia) o a Deauville (Francia).
Perché, dunque, in Campania – persino in condizioni ideali, in aree ricche e senza problemi evidenti né di macro né di microcriminalità – le forme e l’intensità del degrado raggiungono dimensioni altrove semplicemente inimmaginabili?
Non è affatto semplice rispondere a questa domanda. Le implicazioni storiche, sociali, culturali sono tante e tali che nessuno è mai davvero riuscito a dipanare la matassa e a spiegare perché, come rilevava Benedetto Croce riprendendo un detto vecchio almeno di un millennio, spesso Napoli e dintorni appaiono come un paradiso abitato da diavoli. Non proponiamo, dunque, una lettura definitiva.
Tuttavia alcune indicazioni dalle vicende estive delle «perle del Golfo» sembrano emergere. Prendiamo la vicenda sulle voci del mare inquinato (anche a causa dei problemi accusati dal depuratore di Cuma). Prescindiamo dal merito: ovvero non diciamo se siano fondate, parzialmente fondate o del tutto infondate. Sta di fatto che sono state credute. Che molte persone hanno prestato loro fede. E non solo persone ingenue e credulone. Chi scrive conosce un medico oncologo di un grande ospedale napoletano – una persona esperta e smaliziata, dunque – che, dopo molti anni, ha disertato l’agosto ischitano a causa di quelle voci. Cosa significa tutto ciò? Significa che le istituzioni – sia quelle politiche sia quelle tecniche – hanno perduto credibilità. Non vengono credute dai cittadini. E questa mancanza di fiducia produce effetti, anche economici. Ma soprattutto lacera il tessuto del vivere civile.
Come avrebbero reagito le istituzioni a Bath o a Bergen o a Deauville in un caso simile? Avrebbero intrapreso una formidabile campagna di trasparenza: offrendo ai cittadini in tutta umiltà quantità straordinarie di dati certi e tempestivi. E se ancora non fossero stati creduti, avrebbero chiesto ad agenzie tecniche indipendenti e affidabili di fare altrettanto. Trasparenza e disponibilità assoluta al confronto, innanzitutto. È l’unico modo per riacquistare la credibilità (a torto o a ragione) perduta.
Trasparenza e umile disponibilità a qualsiasi costo. Perché anche ritrovarsi nello scenario “reale” peggiore (che in questo caso sarebbe potuto essere registrare l’effettivo inquinamento del mare) è una condizione migliore che ritrovarsi nello scenario “virtuale” peggiore: quello delle dicerie incontrollate.
Il tema non riguarda solo Ischia e Capri e il mare che le bagna. Riguarda tutta la Campania e tutti i temi “ecologicamente sensibili”: dall’abusivismo edilizio ai rifiuti (urbani e speciali). Non si illuda chi crede nelle scorciatoie elitarie o addirittura autoritarie: solo la trasparenza e il faticoso dialogo, solo il recupero di credibilità delle istituzioni e la partecipazione dei cittadini, possono risolvere i problemi del governo della società nell’era dell’informazione e della conoscenza. Proprio come avviene a Bath o a Saint-Moritz, a Bergen o a Deauville e in tutti i paesi e le città d’Inghilterra e della Norvegia, della Francia e della Svizzera. Insomma, come avviene in Europa.
Si tratta, a ben vedere, di (ri)costruire una cultura del bene comune che da noi si è fortemente eroso. Fino a spingere imprenditori di successo a distruggere – come è avvenuto a Ischia e a Capri – la risorsa ambientale (bene comune) da cui traggono direttamente profitto. La repressione dei reati ambientali è certo necessaria. Ma fino a quando la qualità dell’ambiente non diventerà un bisogno diffuso – fino a quando non costruiremo una cultura dell’ambiente come bene comune – non riusciremo a impedire neppure che si ripetano episodi stupidamente tafazziani come quelli avvenuti quest’estate a Ischia e a Capri.
Non sarà facile. Per due motivi. Il primo è che nel nostro paese l’idea e la prassi neoliberiste dell’approccio privatistico allo sfruttamento delle risorse ha assunto forme e intensità sconosciute nel resto d’Europa. I black out a Ischia e Capri di quest’estate – del tutto inimmaginabili per frequenza e intensità a Bath o a Saint-Moritz, a Bergen o a Deauville (Francia) – sono avvenuti anche perché l’erogazione dell’energia elettrica ha cessato da tempo di essere un servizio sociale ed è diventato un affare privato come un altro. Ciò che conta è l’interesse immediato dell’azienda che lo gestisce, non il bene della collettività. Neppure quando su quel bene si regge metà dell’economia turistica di un’intera regione. Non è così nel resto d’Europa. O, almeno, l’approccio privatistico non assume forme così prevaricatrici e irresponsabili.
Il secondo motivo ci rimanda alla vicenda, in apparenza minore, del liceo classico di Ischia. Gli studenti e i docenti di quella scuola in un’isola che vanta una ricchezza media tra le più alte d’Europa non sanno ancora dove e quando inizieranno le lezioni perché il problema in questa parte d’Europa non è considerato prioritario. Non solo dalle istituzioni politiche. Ma dall’intera società. Non c’è una sufficiente domanda sociale di qualità dell’educazione.
Non si tratta solo di Ischia e Capri, naturalmente. La mancanza di un’elevata domanda sociale di educazione di qualità si sono potute diffondere e radicare nel nostro paese e nella nostra regione – persino in realtà ricche come Ischia e Capri – più che altrove in Europa anche perché in Italia e nel Mezzogiorno d’Italia crediamo meno che altrove al valore strategico dell’educazione e della conoscenza.
Una riprova? Il nostro paese investe nella scuola meno degli altri paesi dell’area OCSE. E nei prossimi anni, per uscire dalla crisi, ha deciso di tagliare ben 8 miliardi alla scuola. Negli Stati Uniti, per uscire dalla crisi, il nuovo presidente Obama ha deciso di investire alcune decine di miliardi in più nella scuola. E in Giappone, anche per uscire da un lungo periodo di stagnazione, il partito democratico di centrosinistra che ha vinto le elezioni scalzando dopo mezzo secolo il partito Liberaldemocratico di centrodestra ha annunciato di voler puntare ancora di pi sull’educazione dei propri ragazzi: conferendo alle loro famiglie 3.300 dollari l’anno per l’intero arco degli studi, fino alle medie superiori incluse.
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